In un’intervista passata su Yoi, il Mº Shirai sottolinea che, ai tempi della propria formazione, solo lui stesso, insieme a pochi altri sempai, aveva partecipato e vinto sia nel kumitè che nel kata ai campionati nazionali giapponesi. Sono stato per una ventina d’anni allievo del m° Shirai, poi la vita mi ha portato altrove, ma insieme a molto altro ho ereditato l’amore sia per il kumitè che per il kata. Riconosco le valenze educative di entrambi, in simbiosi fra loro come fratelli gemelli, ognuno con la propria personalità e differenza di genere.
Questa parità culturale si dovrebbe (a mio avviso si deve) tradurre in pratica sin dalla prima lezione ai principianti, mettendo in chiaro che il karate ha due figli: il Combattimento e la Forma.
Il Combattimento richiede specifiche coordinazioni, precisi automatismi e una determinata intensità mentale, mentre la Forma ubbidisce ad altri obiettivi e richiede coordinazioni diverse: il kata srotola le radici della storia, erede e testimone di conoscenze millenarie; il kumitè è il momento presente, influenzato dai maestri, dai campioni, dai regolamenti e dalle tendenze sociali, destinato a evolversi costantemente.
Ma la parità di genere dev’essere sincera. Perciò sin dall’inizio è necessario fornire i mezzi a ogni studente per comprendere appieno il carattere di entrambi i fratelli.
Naturalmente bisogna inquadrare il contesto: bambini.., giovani.., adulti.., anziani.., tarando l’enfasi sui vari argomenti a seconda della platea.
In caso di bambini l’enfasi si concentra nel comprendere che stanno imparando due discipline diversamente simili, in cui la parte di kumitè si valorizza anche attraverso la voglia di mettersi in gioco.
Carlo Pedrazzini