Sono stato integralista nei primi 25 anni della mia vita, ma tutti, credo, lo siamo stati. Infatti fino all’adolescenza pensavo che non avrei mai potuto avere genitori migliori: mia mamma la più bella, buona, comprensiva fra le donne, e la più brava sarta che mai avesse visto l’universo conosciuto; mio papà il più forte, bravo e onesto fra tutti gli esseri viventi, animali compresi. Quando poi dopo l’adolescenza, ho iniziato a scoprire il mondo, ho cominciato a vedere nei miei genitori, pur amandoli profondamente, limiti e difetti.
A seguire, stessa storia col karate: indiscutibilmente “la migliore arte marziale” e lo shotokan “il migliore fra gli stili”. Fino ai 25 anni. Quando infatti ho cominciato a conoscere il mondo più vasto delle arti marziali, ho cominciato a vedere, sia nel karate che praticavo sia nel mio maestro, limiti e possibilità di sviluppo, nel kumitè e nel kata.
Ho sempre apprezzato il Mº Shirai per la sua bravura, serietà, costanza, impegno, coerenza, equilibrio, e anche ora dopo tanti anni, non è venuta a mancare la stima verso l’uomo. Tuttavia, nonostante fossi costernato nel perdere un maestro con tutti quegli attributi, un giorno decisi che la mia esperienza con lui sarebbe finita.
Quando nel ‘78 mi chiese, senza successo, di non combattere per la nazionale unificata Fik-Fesika, non capii subito il perché: voleva il mio bene? pensava di perdermi come allievo? Oppure era solo una questione politica?
Ora lo posso immaginare, ma da quel momento cominciai a riflettere sul mio futuro…
Negli anni seguenti la voglia di combattere mi portò su altri lidi, dove feci scoperte che per un karateka equivalevano alla scoperta dell’America.
Dario Gamba mi portò ad allenarmi con Diminique Valera alla scoperta del full contact, Cesare Barioli e i suoi allievi mi aprirono le porte al mondo del judo (che magari non è tanto bello da vedere, ma è bellissimo da fare), il maestro Chang mi iniziò al kung fu, e poi boxe, aikido, shuai jao (l’aikido del kung fu, cioè quello che il leggendario Mº Weshiba imparò in Cina e poi riportò in Giappone col nome di aikido)…
Una libidine! Ma soprattutto gli straordinari allenamenti coi nazionali di karate olandesi (originari del Suriname) e inglesi (di origini caraibiche).
Non mi sono mai sentito meglio.
Ora, mi sento nel karate come un occidentale che vede nell’estremismo religioso un indice di arretratezza culturale, un modo immaturo di giudicare cose e persone. Come chi dice: “solo la mia religione è vera, chi non ci crede è un miscredente..!”, oppure: “il mio stile è il migliore”, “la mia pratica è più efficace”, “il mio maestro è il più bravo”, “la mia scuola è più titolata” …
Ritengo questo un atteggiamento fondamentalista: non esistono punti di vista diversi, manca la capacità di mettersi in relazione con realtà differenti dalla propria e non semplicemente con le cose in cui ognuno è coinvolto.
Al contrario di molti karateka, che sono passati a differenti discipline, non ho mai abbandonato il mio karate, nel quale ho sempre cercato di traslocare le mie esperienze, sia nel kumitè, sia nel kata. Infatti con l’aiuto di altre arti marziali è possibile approfondire natura dei movimenti, uso del corpo, e possibilità di applicazioni.
Carlo Pedrazzini